“Sono andata in Africa, in Benin, mi hanno fatto cavaliere del panafricanesimo”, racconta Fiorella Mannoia, appollaiata su uno sgabello nella luminosa cucina del suo appartamento romano. “Ho provato una rabbia enorme, un senso di impotenza e di frustrazione di fronte a un mondo che spende per la morte e mai per la vita. Un pozzo costa pochissimo, tremila euro; se avessero l’acqua riuscirebbero anche ad arginare l’ebola. Mandano eserciti anziché mandare dottori. Poi ci lamentiamo se affollano i barconi, ma dove altro dovrebbero andare? Mi terrorizza questa perdita di compassione.
Compassione è la parola più bella del vocabolario. Guardi come trattiamo i nostri fratelli immigrati, nessuno approfondisce, nessuno si chiede il perché. Ho visto con i miei occhi: se gli dai un pozzo non costringendo le donne a maratone estenuanti per dissetare la famiglia trasformano la terra arida in un orto; se crei un ambulatorio o un’ostetricia itinerante, salvi centinaia di vite regalando un futuro ad un intero continente.
L’obiettivo è aiutare l’Africa a non avere più bisogno di noi, di quell’Occidente che, complice il dittatore di turno, l’ha sfruttata e impoverita. La fame uccide molto più dell’ebola ma non se ne preoccupa nessuno perché, la fame, non è contagiosa, i ricchi non la prendono”.
E poi riflette: “Non è possibile essere un’artista facendo finta di nulla. Per dare un senso alla vita, non si può essere indifferenti. A vent’anni potevo anche isolarmi pensando alla carriera, a sessanta no. Con l’età si diventa meno tolleranti, non vuoi e non puoi sprecare tempo e frenare la lingua”.
Fiorella Mannoia in Parole da ruminare, Ed. Le Piagge
Ascolta: Che sia Benedetta di G. Fiorella Mannoia